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La ferita dell'ABBANDONO

Roberta Longoni • 15 gennaio 2020



La seconda ferita: l'ABBANDONO
Ci sono ferite che non si vedono, ma che possono radicarsi in profondità nella nostra anima e rimanervi per il resto dei nostri giorni. Sono le ferite emotive, i segni lasciati dai problemi che abbiamo vissuto durante l’infanzia e che a volte sono determinanti per la nostra qualità di vita da adulti.

La seconda ferita in termini evolutivi, è rappresentata dall’Abbandono, da cui ne segue la maschera del Dipendente.
Si tratta della seconda ferita, perchè come già detto, alla nascita o anche prima, si crea lo spazio di pensiero per il nuovo nato e se questo non è desiderato (per vari motivi), si struttura la ferita del rifiuto.
Successivamente, quanto il piccolo ormai è nato e fa parte della famiglia, si crea lo spazio della relazione e potenzialmente lo spazio per un eventuale abbandono. Di solito l’abbandono, avviene per opera del genitore di sesso opposto, dopo l’anno di età .

Mentre con la ferita del rifiuto siamo sul piano dell’essere, cioè viene rifiutata la persona nella sua esistenza stessa, nella ferita dell’abbandono siamo più sul piano del fare e dell’avere.

E’ come se, una volta imparato a camminare, ad avere un minimo di autonomia, il bambino fosse proiettato nel mondo e quindi acquisisse anche più spazio appunto nelle dimensioni del fare, del possesso, dei vari diritti e qui, in base a come rispondono i familiari, si gioca la ferita in questione.

Quanto libero spazio avrà a disposizione? Con quanta libertà può esplorare? Con quanta forza può chiedere? Può desiderare? Quali possessi, quali capacità, gli vengono riconosciute?
Il bambino che vedrà il suo spazio ridotto, in modo concreto, psicologico, morale, sociale, in toto o in parte, svilupperà questa ferita.
La persona che soffre di questa ferita, si mostrerà anche da adulto, bisognoso dell’altro, vissuto come indispensabile. 
Da solo non sa come cavarsela, è una vera nullità. Il senso di vergogna infatti, costituisce una costante del vissuto del dipendente. 
E’ un inetto, un incapace e se ne vergogna, deve nascondere queste inettitudini pena l’umiliazione.

A livello fisico, il corpo manca di tono, può essere lungo e sottile, ma fondamentalmente è un corpo che si accascia su sé. 

La differenza somatica fra il fuggitivo ed il dipendente sta nel fatto che, seppur magri entrambi, il primo è comunque tonico e si presenta con una postura eretta (deve essere pronto a fuggire), mentre il secondo è cadente, debole (deve essere predisposto ad essere sorretto). Lo sguardo del primo sarà inconsistente e assente, quello dell’altro magnetico, ti tiene lì, non sfugge e non fa fuggire, ammalia con il suo profondo bisogno.

Ma a che livello il dipendente è bisognoso?

Può essere a vari livelli, dipende dall’ambito scelto. Potrà esserlo a livello concreto, economico, ad es. una persona che non sa cavarsela da solo, non ha una fonte di reddito né di sostentamento minimo, che non sa sbrigare le faccende di tutti i giorni.

Ad un livello più interno, può trattarsi di una persona capace e indipendente dal punto di vista economico, ma che pensa di non sapersi gestire, di non saper trovare una ragione di vita, un colore, un piacere. 
A livello ultimo abbiamo una persona che se non si sente amato, pensa di non avere valore, di non essere degno di amore, di attenzione, di capacità, da solo non può farcela!
Naturalmente, come per le altre ferite, ci sono vari livelli di sofferenza e può verificarsi sovrapposizione con altre ferite. 
Di fatto, di solito chi soffre per la ferita dell’abbandono soffre anche di quella del rifiuto e a causa di ciò, l’abbandono diventa ancora più intollerabile.

A livello più profondo, avremo a che fare con un individuo tendente ad impersonare il ruolo di vittima, di povero soggetto, passivo, succube del mondo cattivo e crudele.

Tende a drammatizzare la sofferenza, il senso di impotenza, il dolore e tutte le emozioni provate. 
Con grande difficoltà si prende la responsabilità di sé, dei propri agiti aggressivi e delle proprie capacità.

L’aggressività del dipendente, di solito è di tipo passivo, attraverso appunto la lamentosità, la richiesta continua, la proiezione sull’altro di responsabilità, di decisioni, di aggressività, di angoscia, ecc.

La sua più grande angoscia riguarda la solitudine
Pensa di non potercela fare da solo, di non poter tollerare l’angoscia, il senso di vacuità, di inutilità, di indecisione, il senso di impotenza, di inconsistenza, di non amore, di rifiuto. 
La solitudine, suona per lui, come rifiuto e abbandono appunto. 
Non riesce a concepire l’idea di una solitudine-vuoto, spazio necessario per far emergere i propri contenuti interni.
Come per tutte le altre ferite, anche per questa, il primo passo per il cambiamento è costituito dallo smascheramento.

E’ importante riuscire a vedere la propria maschera, il proprio comportamento e le sue origini, ovvero la ferita sottostante.

E’ assai doloroso recuperare il senso di abbandono originario, quello realmente subito, lo smarrimento, il non amore, la non libertà! Ma accettare di sentire, di vivere, di prendersi il proprio destino su sé, costituisce il primo grande passo per la presa visione di sé e la presa responsabilità delle proprie azioni nelle relazioni.

Comprendere che non si è vittime degli altri, ma attori protagonisti di quanto ci succede oggi, ci aiuterà a trovare le strategie per agire diversamente.

Non sarà facile, perché la formazione della maschera è stata la risultanza di mancanze genitoriali, di ferite che hanno procurato sofferenza, un’immagine di sé carente ed è una modalità cronicizzata nel tempo di vedere e interagire col mondo.

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